Pubblichiamo il testo di una recente sentenza della CTR Pugliese che ha ribaltato completamente il giudizio della CTP richiamando finalmente la Risoluzione n. 92/E del 12.12.2013 che aveva argomentato in materia.

 

Commiss. Trib. Reg. Puglia Bari Lecce Sez. XXIII, Sent., 02-10-2015, n. 2058

L’Agenzia delle Entrate di Brindisi, sulla base delle risultanze contenute nel processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F. Compagnia di Fasano all’esito di verifica fiscale eseguita nei confronti della Società A. Srl – esercente l’attività di “Commercio all’ingrosso di rottami”, in data 12.7.2001 e 23.9.2011 notificava a quest’ultima gli avvisi di accertamento n. (…)/2011 , n. (…), n. (…) relativi rispettivamente agli anni d’imposta 2006-2007 e 2008 con i quali veniva contestata l’illegittima applicazione del regime speciale IVA (c.d. reverse charge) con riferimento alla cessione di beni, solo in minima parte acquistati come rottami auriferi e nella maggior parte acquistati come oggetti preziosi di oro usati, emettendo per tutti fattura con la indicazione di cessione di “rottami auriferi”, senza l’applicazione dell’Iva, ovvero beneficiando del regime di cui all’art.17, comma 5, D.P.R. n. 633 del 1972 .

La Società impugnava distintamente i detti avvisi di accertamento innanzi alla CTP di Brindisi chiedendone l’annullamento per plurimi motivi , e più specificamente per violazione dell’art.54 comma 5 del D.P.R. n. 633 del 1972, per difetto di prova e per la sussistenza dei requisiti e delle condizioni richiesti dall’art. 17, comma 5 D.P.R. n. 633 del 1972.

L’adita Commissione, con sentenze n. 191, 192 e 193/4/12 del 12.6.2012, rigettava i ricorsi e compensava le spese.

Avverso le citate sentenze la Società ha presentato distinti appelli deducendone la illegittimità per i seguenti motivi: 1) difetto di motivazione della sentenza impugnata; 2) manifesta illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art.112 c.p.c..;

3) manifesta illegittimità della sentenza per non aver dichiarato la nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione; 4) manifesta illegittimità della impugnata sentenza nella parte in cui non ha dichiarato il difetto di prova; 5) manifesta illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 17, comma 5 del D.P.R. n. 633 del 1972 laddove non ha dichiarato l’infondatezza nel merito dell’avviso di accertamento. 6) manifesta illegittimità della sentenza nella parte in cui non ha riscontrato la non evasione d’imposta in applicazione di un diverso regime contabile; 7) Chiede espletarsi perizia tecnica d’ufficio con nomina di un C.T.U.

Conclude per l’annullamento degli avvisi impugnati, in subordine chiede ridursi sensibilmente l’ammontare del maggiore imponibile accertato; in estremo subordine non ritenere applicabili le sanzioni; in ogni caso disporre la nomina di un CTU, con condanna dell’A.F. al rimborso di quanto eventualmente versato e al pagamento delle spese, diritti e onorari di giudizio, con distrazione in favore del difensore, dichiaratosi antistatario.

Resiste l’Agenzia delle Entrate con controdeduzioni a mezzo delle quali contesta le avverse ragioni e argomentazioni, sia in ordine alle eccezioni di rito che nel merito della pretesa, ribadendo la insussistenza del requisito oggettivo e soggettivo per la fruizione dello speciale regime IVA. Conclude per il rigetto dell’appello, con conferma della impugnata sentenza e con condanna dell’appellante al pagamento delle spese di giudizio.

Alla udienza pubblica del 17.5.2015 la Commissione riuniva al presente procedimento gli appelli con RGA n. 3247/12 e 3248/12 per connessione oggettiva e soggettiva, disponendo il rinvio ad altra data per la trattazione degli appelli così riuniti.

Alla odierna udienza sono comparsi per la Società l’Avv. Maurizio Villani e per l’A.F. il Dott. Oreste Pinto i quali si riportano ai rispettivi scritti difensivi dei quali chiedono l’accoglimento.

La Commissione decide come da separato dispositivo in atti.

Motivi della decisione

Gli appelli (riuniti) sono fondati e, pertanto, meritano accoglimento.

Preliminarmente, vanno disattesi i primi tre motivi di gravame, che possono essere esaminati congiuntamente in ragione del comune profilo censorio in relazione ad un presunto difetto di motivazione della sentenza e/o di omessa pronuncia.

E tanto, perché i primi giudici, contrariamente alle asserzioni della società appellante, hanno puntualmente motivato il rigetto del dedotto difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, evidenziando la completezza degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento della pretesa tributaria, sì da mettere la contribuente nella condizione di poter adeguatamente esercitare il proprio diritto di difesa, come in effetti esercitato. Hanno, altresì, dato contezza degli elementi fattuali e delle ragioni giuridiche, (ancorchè non condivisibili per le considerazioni che saranno più avanti specificate) che hanno indotto loro di ritenere insussistente il requisito oggettivo e soggettivo per la legittima fruizione dello speciale regime Iva, nonchè di ritenere legittima l’applicazione delle sanzioni irrogate.

La Commissione Provinciale, invero, nel confermare gli avvisi di accertamento impugnati, anche sotto il profilo del quantum delle sanzioni, ha implicitamente reso una valutazione complessiva di legittimità dell’operato dell’A.F., oltre che di congruità della base imponibile e dell’entità delle sanzioni.

Supponendo la detta valutazione un implicito rigetto della censura in ordine alla presunta violazione dell’art.54, comma 5, del D.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art.11, comma 2, L. n. 212 del 2000, nonchè dell’eccezione concernente il calcolo della presunta Iva a margine, deve escludersi il vizio di omessa pronuncia, giacchè, per costante insegnamento della Corte di Cassazione, ” a integrare gli estremi di questo vizio non basta la mancanza di una espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo della domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr, ex multis, Cass. 12.7.2013 n. 17250, n. 20311/11, n. 10696/07).

Donde non può fondatamente sostenersi che sia mancata la pronuncia sulla censura al riguardo riproposta in appello.

Meritano, invece, accoglimento le doglianze rappresentate in relazione al dedotto difetto di prova e alla ritenuta insussistenza del requisito oggettivo e soggettivo per la fruizione del regime speciale dell’Iva, ex art. 17 , comma 5 del D.P.R. n. 633 del 1972, del quale la contribuente ne denuncia la violazione e falsa applicazione.

La norma testè citata dispone testualmente: “In deroga al primo comma, per le cessioni imponibili di oro da investimento di cui all’art.10, n. 11, nonché per le cessioni di materiale d’oro e per quelle di prodotti semilavorati di purezza pari o superiore a 325 millesimi, al pagamento dell’imposta è tenuto il cessionario, se soggetto passivo d’imposta nel territorio dello Stato”.

Per effetto di tale meccanismo (“reverse charge”), evidentemente, finalizzato a contrastare il fenomeno della frode fiscale in particolari settori ritenuti ad alto rischio di evasione, la fattura è emessa dal cedente, ma senza addebito d’imposta, che deve essere applicata dall’acquirente; in tal modo, il debitore d’imposta è soltanto il cessionario/committente, anzichè il prestatore/cedente.

Con l’impugnato avviso di accertamento l’A.F. contesta alla Società A., che opera sul territorio dell’intera Puglia con numerose filiali, l’illegittima applicazione del regime speciale IVA (c.d. reverse charge) con riferimento alla cessione di beni, solo in minima parte acquistati come rottami auriferi e nella maggior parte acquistati come oggetti preziosi di oro usati, emettendo per tutti fattura con la indicazione di cessione di “rottami auriferi”, senza l’applicazione dell’Iva, ovvero beneficiando indebitamente del regime di cui all’art.17, comma 5, D.P.R. n. 633 del 1972 .

Tale contestazione, tuttavia, nasce (da) e si regge unicamente sull’isolata presunzione che gli oggetti di oro usato acquistati da privati cittadini, siano stati, poi, ceduti alle F.C. Spa, I. Spa, M.T. Srl e I.P. Srl, come oro usato e non invece, come, sostenuto e fatturato dalla Società, quale rottame aurifero.

Trattasi, all’evidenza, di mera congettura, ovvero di presunzione semplice basata su un parziale riscontro cartolare (fatture di acquisto e non anche di vendita) e sguarnita dei previsti requisiti di gravità, precisione e concordanza, ex art. 2729 c.c.., laddove il ragionamento meramente presuntivo dell’organo verbalizzante avrebbe necessariamente imposto, una verifica fiscale anche presso le cessionarie fonderie al fine di verificare, aldilà della supposta e astratta possibilità statutaria di rivendere gli oggetti così acquistati, il concreto utilizzo e destinazione di questi.

In difetto di tale accertamento supplementare e in assenza di qualsivoglia ulteriore elemento di prova, anche solo di tipo indiziario, capace di conferire forza persuasiva e credibilità alla presunzione operata dall’ufficio, devono ritenersi sufficienti, ai fini del suo superamento, le fatture emesse dalla Società cedente regolarmente contabilizzate e le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà della Società cessionarie, secondo cui “tutte le fatture ricevute dal fornitore A. Srl si riferiscono ad acquisti di rottami auriferi composti di varie tipologie di prodotti non idonei al consumo finale ma che sono stati impiegati in un processo intermedio di lavorazione previa fusione e trasformazione….”.

Pur con i noti limiti probatori di cui soffrono simili dichiarazioni, il Collegio non ha motivo di dubitare della loro sostanziale attendibilità, alla stregua dei principi enunciati dalla stessa Agenzia delle Entrate Direzione Centrale Normativa con la risoluzione n. 92/E del 12.12.2013 e nella considerazione che :

– le società cessionarie risultano essere fonderie regolarmente iscritte nelle rispettive Camera di Commercio e titolari di propri marchi di fabbrica;

– le fatture ricevute sono state integrate ed annotate negli appositi registri con relativa Iva assolta;

– le dichiarazioni rilasciate dalle dette Società non risultano essere state mai contestate dall’Agenzia, né risulta contestato e ancor meno dimostrato, che gli oggetti di oro usato non sono stati sottoposti agli asseriti processi di lavorazione, trasformazione etc.

In buona sostanza, il Collegio ritiene che, ai fini dell’applicazione del cosiddetto regime del “reverse charge” di cui al richiamato art. 17, occorra valorizzare non già il momento dell’acquisto, (il solo considerato dall’Ufficio finanziario), bensì quello di cessione di materiale d’oro, giacchè a questo fa riferimento il più volte richiamato art. 17 del D.P.R. n. 633 del 1972. Occorre, cioè aver riguardo alla destinazione finale dell’oggetto venduto , indipendentemente dalla sua natura di oro usato, semilavorato o dalla sua esatta qualificazione merceologica, nonché all’attività del soggetto cessionario, che deve essere esclusivamente finalizzata al processo di fusione e affinazione chimica del materiale prezioso e non anche alla commercializzazione dell’usato. Laddove è dimostrato, come nel caso di specie, che l’attività consiste nell’acquisto di oggetti preziosi usati da privati cittadini e nella successiva rivendita direttamente alle fonderie specializzate nel recupero di metalli preziosi, il cedente diviene soggetto obbligato ad emettere la relativa fattura di cessione ai sensi e per gli effetti del citato art.17, come da pareri resi dalla stessa A.F. dapprima con risoluzione n. 375/E del 28.11.2002 e successivamente con nota n. 4575 del 24.2.20911 (Agenzia delle Entrate Direzione Regionale delle Marche) e n. 130749 del 31.10.2011 (Agenzia delle E. Direzione Regionale della Lombardia).

Peraltro, essendo le Società cessionarie tutte titolari di un proprio marchio di fabbrica e, dunque, fortemente interessate a promuoverne la sua diffusione, sarebbe del tutto irragionevole ipotizzare una vendita diretta dell’oro usato acquistato – come sostiene l’Ufficio – poiché in evidente dissonanza con le stesse finalità del marchio di fabbrica e in conflitto con l’interesse primario dell’azienda.

Sulla scorta delle considerazioni sopra svolte, assorbenti anche delle residuali eccezioni, il Collegio, contrariamente a quanto opinato dai primi giudici, ravvisa, nel caso, la sussistenza dei presupposti di legge per l’accesso allo speciale regime dell’inversione contabile di cui all’art.17, comma 5 del D.P.R. n. 633 del 1972.

Ricorono giusti motivi per compensare interamente fra le parti le spese di giudizio, tenuto conto della particolare problematica, nonché della reciproca soccombenza correlata alla reiezione delle eccezioni di rito.

P.Q.M.

La Commissione accoglie gli appelli riuniti. Spese compensate.

Lecce, il 11 settembre 2015.